giovedì 21 gennaio 2010

Umido bagnato e freddo. Capitolo Terzo






Umido bagnato e freddo.
Il panorama che si estendeva davanti ai miei occhi era così.
Un vento gelido sollevava piccole goccioline di acqua che nebulizzavano ogni cosa.
Le barche e le piccole cassettine in metallo che racchiudevano i verricelli a scoppio, le bottiglie di plastica ed i pezzi di tronchi che affollavano la spiaggia. Tutto era spruzzato di acqua e sale.
Più mi avvicinavo alla riva e più subivo la stessa sorte degli oggetti che vi risiedevano.
Il vento non soffiava continuo lasciando il tempo per un attimo al senso di umidità sulla pelle e sui vestiti.
Avevo scelto una giornata sbagliata.
Frugai in tasca e presi il pacchetto di sigarette, lo aprii ed al volo le contai approssimativamente con un rapido sguardo mentre ne sfilavo una.
Erano sufficienti per il tempo che mi ripromettevo di trascorrere in balia di quel maestrale.
Fumavo e passeggiavo piano sull’arenile attento a scansare le onde che di tanto in tanto si spingevano più in alto.
Cazzo che freddo.
Perché avevo lasciato la vodka in macchina?
Avevo il classico atteggiamento di chi si sforza di apparire indifferente. Un passante o ancora meglio uno che aspetta, un amico, un parente, un cliente, un cristochiunque che lo venga a prendere e nel frattempo fa due passi.
Pensavo che qualcuno da dietro le persiane delle casette aldilà della strada potesse osservarmi. Un maresciallo in pensione avvisato dalla moglie che stava stendendo i panni, si fosse messo lì per controllare quello sconosciuto che quasi al buio si aggirava vicino le loro case. Un tossico, un ladro, un suicida.
Guardavo l’orologio per avvalorare la scusa di quello che aspetta e sbuffando sussurravo: cazzo sempre in ritardo!
Durante tutta questa sorta di recita mimica stavo attento a scorgere nel mare qualche segno della mitica creatura e sulla spiaggia qualche segno dello stronzo pescatore.

Il tempo passava, l’umidità si addentrava sempre più in fondo nelle ossa e non succedeva nulla.
Forse non mi sentiva.
Dalla strada arrivava ogni tanto il rumore di auto e motorini. Troppo rumore, troppa confusione c’era ancora per potersi rivelare.
Eppure avevo la sensazione che quel respiro che ricordavo di aver sentito la sera prima adesso era nuovamente presente. Era già trascorsa più di un’ora e mezza e per provare un po’ di calore avevo già fumato cinque sigarette. Soffiavo il fumo nelle mani per riscaldarle.
Quello sbuffo ciclico diventava sempre più percettibile. Forse cambiava la corrente.
Il vento era calato ma l’aria era più fredda.
La costa della Calabria adesso era sfumata dalle luci dell’illuminazione stradale.
Non si scorgevano quasi più i contorni delle montagne e delle pianure. Una lunga coda nera tempestata ai margini di pietre arancio.
Mi fermai davanti alla boa, la stessa che ricordavo nel caleidoscopio di sensazioni di ieri.
A pochi metri c’era un mattone forato reso liscio dal sale e dal sole. Lo scollai dalla sabbia e lo spostai nella traiettoria della boa. Lo misi in verticale e lo usai come sgabello.
Seduto sentii la testa indolenzita e ghiacciata. Le tempie mi battevano forte.
Cazzo la testa.
Il vento aveva innescato una delle mie feroci crisi di mal di testa.
Un dolore forte e debilitante che si sarebbe arrestato solo chiudendo gli occhi dopo aver assunto 600 milligrammi di ibuprofene.
Qui non si sente nessuno.
Ma quanto sono coglione… che speravo di trovare?
Chiusi gli occhi e mi strinsi la testa tra le mani.
- Stai male?
Alzai di botto la testa e mi iniziò a girare tutto. La boa, gli scogli, il mare e le luci gialle giravano tutte attorno.
-         Sei tornato.
-         Sono tornato. Però sto male.
-         Che hai?
-         Interessarsi dell’interlocutore è un mio insegnamento.
-         E’ una regola di buona creanza.
Parlavo con gli occhi socchiusi per le fitte che mi ferivano da dentro la testa. Non riuscivo a gridare e neanche ad usare un tono alto ma lui sentiva lo stesso.

-         Ma se non grido come fai a sentirmi ugualmente da là sotto?
-         Sono molto più vicino di quanto pensi. Di tanto in tanto riesco a risalire quasi in superficie. Certo per poco, non posso lasciare il mio posto a lungo altrimenti sarebbe finita. Per voi.
-          
Gli spiegai che ero lì intanto per capire se quella conversazione che ricordavo del giorno prima era realtà o solo immaginazione. Poi perché forse per via dell’alcol, quella sera non avevo dato la giusta importanza all’evento.
-         Pensavo di essere diventato pazzo, sai.
-         Non sei il solo. Altre volte ho cercato contatti con voi della superficie. Di rado per la verità. Le poche volte che ci sono riuscito però non è durato a lungo. I miei amici, per così dire, dopo poco tempo, davano strane reazioni e finivano con l’essere emarginati e scherniti. Insomma venivano presi per folli e non tornavano più.
-         Minchia! Vuoi dire che verrò rinchiuso pure io?
-         Io questo non lo so. Io non so neanche perché poi tutti dobbiate raccontare di quello che vi dico. Certo mi rendo conto che è questo il rischio che si corre a dire che si parla con un “mito”.
-         Però devi anche capire che è quasi inevitabile, vista la straordinarietà della cosa.
-         Vedrai che neanche le persone più vicine ti crederanno.
-         Vabbè ma io a queste cose non ho ancora pensato. Quindi…
-         Continuiamo?
-         Cola ascolta, sento freddo da morire, ho un mal di testa che tra poco vomito e credi che sia rimasto qui per smettere?
-         Allora continuiamo. Ho anch’io tante cose da chiederti. Ho dei vuoti e vorrei capire se sia ancora giusto sostenervi o non sia meglio mollare tutto ed abbandonarvi al destino di naufraghi.
Mi accesi una sigaretta e iniziai a dialogare calmo e sereno con quella voce che veniva dal mare.
Ero costretto a parlare strizzando gli occhi per il dolore trattenendo anche una sorta di languore e nausea. 
-         Cola sto di merda. Non so per quanto tempo riuscirò a stare qui.
-         Ma guarda che puoi andare quando vuoi.
-         Sì, ma prima di andare via voglio sapere come posso fare per riparlarti. Quando e dove.
-         Guarda che io sono sempre qua, da centinaia di anni.
-         Sì d’accordo ma vuol dire che se vengo domani mattina possiamo continuare a parlare?
-         Potrebbe essere possibile ma preferirei quando non c’è confusione.
-         E se tu sei in fondo a reggere la tua colonna come fai a sentirmi?
-         Stai tranquillo, ho ormai imparato a memoria la modulazione della tua voce. Tira un sasso più lontano che puoi e subito dopo pronuncia il mio nome a pelo d’acqua.
-         Bene. Adesso vado. Buonanotte.
-         Buonanotte anche a te.
Mi alzai piano e mi incamminai verso la macchina. Ero a qualche metro quando mi piegai d’un tratto a vomitare.

La mattina mi svegliai più sereno. Sapevo che non si era trattato di un sogno.
Sapevo che ero il “prescelto”.
Pioveva ma stranamente quella condizione meteorologica sfavorevole non mi causava nervosismo. Portai mia figlia a scuola con la macchina e la lunga fila di auto incolonnate in quella via stretta e otturata dalle auto in sosta, non riusciva a farmi smettere di sorridere.
-         Ciao papà, ci vediamo all’uscita.
-         Ciao stella, fai la brava.
Tanto lo sapevo che era brava. Tutti i professori lo dicevano. Ma un papà che altro può raccomandare.
Nella strada verso l’ufficio accesi la prima sigaretta della giornata.
Iniziai a riflettere su tutte le parole che ci eravamo scambiati con Cola. Glissai su quelle che parlavano di follia e di manicomi. Mi concentrai sui suoi “vuoti” e su quello che avrei potuto e saputo dire per colmarli.

In ufficio feci la mia solita rassegna stampa consultando su internet i miei quotidiani on line ed i siti preferiti. Neanche le notizie che come sempre restituivano l’immagine di un paese allo sbando senza giustizia e senza verità, riuscirono a rattristarmi. Ci si abitua anche al peggio.
L’assuefazione è un cancro che distrugge ogni forma di vita e ogni reazione ad essa legata. L’indignazione e la rabbia si gonfiano come bolle di sapone pronte ad esplodere mute nell’aria dopo pochi secondi.

15 Gennaio 2010 da strill.it

E' partito da pochi minuti da Piazza Castronovo, a Messina, un corteo al quale partecipano circa 200 sfollati delle zone colpite dal nubifragio del primo ottobre. I manifestanti protestano contro le decisioni del sindaco di far tornare, nelle zone considerate sicure dalla Protezione civile, molti cittadini che invece chiedono prima la messa in sicurezza della montagna. ''Non torneremo nelle nostre abitazioni - ha detto il presidente del comitato - abbiamo paura e pretendiamo che prima sia messa in sicurezza la montagna. Il sindaco dice che non siamo obbligati a tornare, ma c'e' un ricatto psicologico perche' a chi non torna nelle proprie case non sara' piu' pagato l'albergo o il sussidio''. ''Molti cittadini - aggiunge - nonostante la paura, sono gia' rientrati nelle loro case perche' non sanno come pagarsi l'affitto di un appartamento''.

15 Gennaio 2010 da blog locale

Giampilieri – manifestazione a tre mesi dalla Tragedia – «Attese e Speranze»

In una grigia plumbea giornata, i Cittadini Messinesi, colpiti dalla sciagura del 1° Ottobre, si sono riuniti di fronte alla Prefettura per far sentire la loro voce.
Diversi i cartelli, che vogliono testimoniare la voglia di partecipazione alle scelte che le autorità preposte dovranno prendere. E’ un grido di dolore di chi ha i bambini che vivono in un paese deserto e senza colori. I colori in verità ci sono: sono quelli delle varie zone, verdi, rosse, gialle, viola. Ma non portano gioia, solo tristezza. La casa divisa a metà, tra zona rossa e zona verde, sembra più una boutade, che il risultato di una ponderata scelta tecnica.  In ogni caso mortifica le persone che devono subire questi ulteriori disagi.

Ero un’altra volta su quella spiaggia.
Non ricordo come ci fossi arrivato ma ero lì. La sabbia era dura e compatta per la pioggia. Il mare era scuro e fermo come intimorito dai nuvoloni scuri che lo sovrastavano.
Io nuovamente lì per cercare il mio “amico”. Lo consideravo così, perché dovevo essere l’unico evidentemente che in questo momento riusciva a parlare con lui. Magari l’unico di questo decennio o forse anche di questo secolo.
Lo vedevo come un uomo solo, incapace e impossibilitato a trovare un dialogo con gli esseri umani. Mi sembrava di leggere anche un certo doloroso bisogno di comunicare.
Faceva meno freddo e nonostante la monotonia dei colori, lo stretto era splendido. L’aria tersa rifletteva un paesaggio ricco di contrasti come un bassorilievo d’argento.
Cercai un sasso da lanciare lontano. Mi inginocchiai sulla battigia e pronunciai il suo nome.