giovedì 4 febbraio 2010

Capitolo 4


Il cielo all’improvviso tuonò.
Nessun lampo e nessun borbottio di preavviso. 
Forti e veloci le nuvole grigie urtarono contro quelle nere provocando evidentemente quel potente suono elettrico cupo e tagliente allo stesso tempo.
Aveva appena risposto Cola quando una leggera pioggerellina incominciò a pungere il mare.
Sulla sabbia piccoli puntini uniformavano la superficie.

-         Si è messo a piovere.
-         Ti conviene andare o ti inzupperai tutto.

Il mare adesso raccoglieva la pioggia gonfiandosi e leccando gli scogli con un’onda più lunga.
Avrei voluto dire a Cola che ormai non vedevo l’ora di poter raggiungere quella spiaggia e parlare con lui, ma quello strano e rigido imbarazzo che spinge soprattutto gli uomini a reprimere gli slanci amichevoli e d’affetto, mi bloccò.
Ci pensò lui a togliere questo imbarazzo.
-         Speravo tornassi presto. Avevo proprio voglia di parlare con qualcuno.
-         Anch’io.
Per dirla tutta ormai non facevo che pensare a quegli incontri. Non riuscivo ad affrontare alcun impegno senza viverlo come un impedimento ai miei colloqui con Cola. Ma non aggiunsi altro.
Diluviava. La pioggia ormai avvolgeva tutto. Le scarpe affondarono nella sabbia e sentii l’umido nelle caviglie. Gocce scendevano cadenzate dai capelli.
-         Cola vado.
-         Sì, è meglio. Spero di vederti presto e di ascoltarti soprattutto.
-         Credo sia tu quello con più cose da dire.
-         Facciamo un patto allora, prima racconta tu e poi lo farò io.
-         La mia vita è meno di un ventesimo della tua, cosa potrei dirti che tu non sappia già?
-         Tanto. Più di quanto tu possa credere, anzi, magari la prossima volta mi racconterai qualcosa di te.

Ormai lo scroscio dell’acqua era divenuto rumoroso e violento. Ero zuppo fino alle ginocchia e la giacca era divenuta pesantissima.
-         Cola a presto. Se non piove, vengo domani.
-         Domani sarà ancora così ed il mare sarà molto agitato. Magari dopodomani.
-         Se lo dici tu…
-         A dopodomani.

Ritornai alla macchina ma non entrai velocemente perché, come un coglione, pensavo che avrei irrorato probabilmente in modo irreparabile il sedile.
Entrai e cercai di posarmi con cautela sul tessuto come per preservarlo da un danno fatale senza neanche poggiarmi allo schienale. Impostai la temperatura a 24° ed aspettai che arrivasse il caldo alito dalle bocchette del riscaldamento prima di partire.

Mi incolonnai nel flusso delle auto che si spostava verso la città. Erano le undici e potevo ancora fare in tempo per un po’ di “cose di lavoro”.
Avevo segnato tutto su un foglietto. 
Dimentico sempre di portare le agende con me. Mi impediscono i movimenti. 
Ne compro sempre di belle e tascabili: nei primi giorni ci riporto tutto diligentemente, poi però mi stufo e le abbandono a casa, in macchina o in ufficio.
La lista era lunga. Giro di banche varie. In una per un bonifico ed in un’altra per un carnet. 
Sarei anche potuto andare in un'altra per portare i bilanci.

Il fatto che il tempo stamattina non promettesse altro che pioggia e freddo aveva reso possibile l’incontro con Cola. La spiaggia era deserta. I pescatori conoscono i venti e le maree. Loro sapevano che avrebbe diluviato. 
Io no. Pensavo solo che ci fosse una giornata coperta, forse anche una breve e leggera precipitazione ma mai sto cazzo di tempesta.
Le strade erano bloccate. Arrivare al centro sarebbe stato impossibile.
Con la musica in sottofondo rivolgevo lo sguardo all’interno dell’abitacolo delle auto in fila. 
Placidamente godevo della frenesia degli occupanti restandone assolutamente indenne. 
Ingolfati dentro giacconi ingombranti e nervosi come cani legati ad un palo, manifestavano la loro rabbia agitandosi con il corpo e disegnando con le braccia strani paesaggi. 
Assistevo a bambini impauriti ed ammutoliti nei sedili di dietro mentre genitori inferociti nei posti davanti pronunciavano bestemmie ritmate dal movimento dei tergicristalli.
Misi una R accanto a quasi tutti gli impegni annotati nel foglietto. R sta per rinviato.
Ne lasciai uno vuoto.
Banca Agricola. E’ qui vicino. Ci arrivo anche senza addentrarmi verso il nucleo dell’ingorgo.
Però ora sentivo freddo dappertutto.
Io gli ombrelli non li sopporto. Li trovo utili all’inizio ma poi è come per le agende.
Misi l’ipod e mi incamminai riparandomi con l’unico ombrello trovato in macchina.
Aveva un arco rotto e penzolava da un lato. Era vecchissimo. Preso alcuni anni addietro all’Agip. Aveva traslocato in un paio di auto ed era giunto adesso nel cofano di questa. Il colore originale credo fosse giallo ma adesso sembrava una sorta di senape con striature grigie.
Mi vergognavo un po’.
Lo lasciai con indifferenza nel portaombrelli prima della porta a bussola della banca. 
Entrai e vidi che l’agenzia era molto affollata. Sarà giornata di scadenze. 
Presi il numero. 49: guardai il display che segnava 29. In termini di tempo equivaleva ad un’ora almeno. Mi guardai attorno per vedere se c’era qualcuno tra i clienti che conoscevo. Nessuno per fortuna. Mi misi in un angolo lontano dalla folla. Potevo controllare il procedere della fila e non avere nessuno attorno. Aumentai il volume e iniziai a rilassarmi. Lo facevo spesso. Guardavo l’affannoso vivere delle persone che come formiche compiono gesti rituali e a volte inutili. Mettevo la musica e li osservavo come fossero dentro un contenitore di vetro da cui non proveniva alcun suono.
Il signore con il cappello ha una certa età ma tenta sempre di attaccare bottone con quella donna giovane che siede di fronte. C’è poi quello che guarda verso le casse e scuote la testa. A volte muove la mano su e giù. Fila o non fila lui è sempre scontento di aspettare. Lui è fermamente convinto che i cassieri non facciano il loro dovere. Per lui, nessuno svolge davvero il proprio dovere. Alla posta o sul tram, dal medico o al supermercato. Cazzo deve sempre aspettare. Ah se comandasse lui…
La signora anziana seduta sulla destra teneva in mano dei fogli di carta. Aveva il cappotto grigio e le scarpe della farmacia. Doveva prelevare trecento euro ma non sapeva usare il bancomat. Al cassiere avrebbe chiesto una banconota da cento, due da cinquanta e dieci da dieci euro per i nipoti e la bottega della frutta che non ha mai resto.
Nel cervello si irradiava dagli auricolari l’organo di Tunnel of love ed a stento riuscivo a trattenere di battere il tempo con il piede.
Da una porta a vetri uscì il direttore ed alcuni clienti gli si fecero incontro. Qualcuno sembrava lamentarsi della fila, dei costi bancari e di altre mille cose.
Era fantastico vederli muoversi come burattini silenziosi mentre la chitarra di Mark Knopfler lacerava i muscoli della mia mano destra facendola danzare su e giù come tenendo stretto un plettro.

-         Dovrei prendere un carnet per favore.
-         Lei ha la delega vero?
-         Certo.

Fuori pioveva ancora a dirotto. Fui costretto a riprendere il relitto d’ombrello dentro il cilindro in metallo nero. Mi ritrovai così di nuovo incolonnato verso la scuola di mia figlia.
Cercai di pensare a cosa poter raccontare a Cola nei prossimi incontri. Quali avvenimenti della mia vita potevano destare il suo interesse? Che parte di me poteva rivelarsi interessanti per un uomo che da centinaia di anni viveva in fondo al mare? Lui che l’ultimo mondo visto, era quello del 1300. Lui che quando mangiava non aveva ancora la forchetta.
Poi per un attimo iniziai a pensare a le poche cose che ricordavo del medioevo. 
Ma ancor di più iniziai ad immaginare come si poteva vivere in un piccolo borgo di mare in quel periodo. Casupole e barche a remi. Candele e orinali. Piccoli orti e strani vestiti. Ignoranza assoluta e diarree mortali. Volgare in strada e latino in chiesa.
Capii allora la voglia di sapere che spingeva Cola a cercare un contatto in superficie.
Voleva conoscere e capire. 
Ma come sarei riuscito io a spiegare in che modo il mondo era cambiato? Attraverso la mia vita o le mie impressioni come avrei potuto infondere la conoscenza di qualcosa che non riuscivo a capire io per primo.
Ma pur consapevole della mia incapacità a comprendere gli inspiegabili controsensi che questo mondo genera, quali parole avrei usato per far nascere in lui le stesse perplessità?

Mia figlia mi fece un cenno con la mano, mi accostai ed il mio strano ragionamento svanì nel turbinio della sua leggera spensieratezza.
La sua energia volta a scoprire lietamente, crescendo e vivendo, quel mondo che avrei dovuto spiegare anche a Cola mi sembrò la risposta ad ogni incertezza.