venerdì 15 gennaio 2010

La leggenda di Colapesce. Capitolo II




Non riuscivo a ricordare.
Per quanto mi sforzassi di quella sera mi restavano in mente solo alcune sbiadite percezioni.
Una boa arancio che ondeggiava piano brillando sotto la luce della luna, i sassolini umidi sotto il culo e l’ombra scura della fila di massi che cingeva la riva.
Vagamente mi giungeva la voce di Giovanni che cantava canzoni popolari siciliane appena prima di cadere sfinito sulle tavole umide ed azzurre dell’entrobordo.
Rammentavo anche il gusto un po’ tannico nel palato e la sensazione tagliente di salsedine sulle labbra riscaldate dalle decine di sigarette fumate.
Certo poi quelle parole.
Quella voce calma di uomo giovane che sembrava sgorgare dalla schiuma bianca delle minuscole onde.

Capita a tutti di sognare qualcosa e svegliarsi con quella sensazione di averla vissuta realmente. Un sogno che diviene quasi ricordo per la ricchezza di dettagli e di sensi che sembra a volte realmente accaduto.
Ma stavolta era più forte. Forse amplificato dall’alcol e dalla suggestione dello Stretto.

Forse su quella spiaggia in questo momento c’era un pescatore che raccontava ad altri amici appoggiati alle barche, intenti a preparare consi e cucire nasse, la storiella di come aveva preso in giro un giovane cittadino per tutta la notte.
Ancor peggio poteva essere tutto frutto della mia immaginazione.
La mia mente lanciava i primi segnali di cedimento?
Capita. Lo stress gioca brutti scherzi.
Ci sono centri di igiene mentale pieni di giovani stressati che credono di vedere gli alieni o di parlare con dio.

Stavo diventando pazzo o ero abilmente caduto nelle reti di un abile pescatore giocherellone?
Mi avrebbero imbottito di inibitori della serotonina o avrebbero riso per sempre del coglione che credeva di parlare con Colapesce.

In un modo o in un altro dovevo capire. Almeno per evitare di assumere farmaci inutilmente.
Dovevo tornare su quella spiaggia.
Sì ma quando.
Di giorno avrei trovato gente che passeggiava con il cane e padri separati con il figlio per mano.
Avrei rischiato di trovare magari quel bastardo di pescatore che mi aveva tirato questo brutto scherzo.
Allora di notte.
Ma come avrei fatto?
Che avrei raccontato a casa?
Dovevo andare sulla spiaggia a capire se stavo uscendo pazzo o se invece mi avevano fottuto (non capisco perché ma la seconda ipotesi mi spaventava meno ma mi faceva molta più rabbia).

Magari avrei scelto il tardo pomeriggio. Verso le sei e mezza in questo periodo è già buio e avrei trovato la spiaggia libera. Era l’unica soluzione per togliermi ogni dubbio. Ci sarei andato oggi stesso. Ora mi sarei messo a lavorare senza pensare a queste stronzate e poi sarei andato nello stesso punto dove mi ero seduto ieri sera.

Entrai in ufficio e mi misi davanti al computer. Dovevo preparare alcune lettere e registrato alcune fatture.
Sì insomma avevo tante cose da fare che mi avrebbero aiutato di sicuro a trascorrere queste ore d’attesa senza pensare a Colapesce.

Non feci nulla di tutto questo.
Non riuscii neanche ad avviare il programma di contabilità.
Nella barra delle ricerche di internet cercai “colapesce”.
86.300 voci sul termine ricercato. La prima riporta che la legenda di Colapesce è un racconto con molte varianti le cui prime risalgono al 1300.

Tutte narrano di questo giovane messinese figlio di pescatori di nome Nicola ma chiamato con il diminutivo Cola e detto Colapesce per la sua abilità di nuotatore.
Nel mare si comportava proprio come un pesce.
Un giorno il re incuriosito dalla sua fama lo volle mettere alla prova e dopo avergli fatto raccogliere oggetti preziosi che egli stesso lanciava nel mare profondo, gli chiese di andare a controllare cosa ci fosse sul fondo del mare.
Cola si immerse e gli raccontò di tre colonne che reggevano la Sicilia. 
Una era però di fuoco e vacillava.
Il re gli chiese di raccogliere un po’ di quel fuoco.
Cola ritornò negli abissi e non riemerse più.
Per tutti Cola scelse di reggere l’isola a causa della sua instabilità.

Rimasi colpito tra le decine di versioni della legenda da una che riportava alla fine un messaggio di speranza: Ci sono anche di quelli che dicono che Cola tornerà in terra quando fra gli uomini non vi sarà, nessuno che soffra per dolore o per castigo.

 Il telefono squillò. Un trillo che mi riportava alla vita reale.
Un richiamo che cancellava sogni leggende e ricordi.

-         Pronto?
-         Sì, ci vediamo più tardi.
-         No alle diciotto non è possibile, ho un appuntamento importante fuori ufficio.
-         Facciamo per domani allora.

Non potevo minimamente lasciare che nulla interferisse con quel mio impegno.
Quella spiaggia, quella boa arancio e quella fila di massi sarebbero stati la mia meta.
Come una biglia che rotola inesorabilmente su di un piano inclinato, era lì che mi sarei fiondato appena buio.
Non riuscii a pranzare né a compiere quelle quotidiane operazioni che ogni giorno accompagnavano la mia vita da impiegato. Ad ogni principio di conversazione sfuggivo usando le scuse più banali.
Scusa ma ho un forte mal di testa.
Ora non posso, devo fare una chiamata urgente.
 Non volevo che nulla mi distogliesse dalla mia missione. Come un kamikaze ripetevo piano come una litania quello che avrei fatto. Nulla poteva interferire con il mio proposito, non potevo permetterlo.

Il tramonto illuminava di rosso il Tirreno e le ombre scure avvolgevano già la costa ionica della Calabria e della Sicilia.
Il piccolo canale di mare aveva adesso colori forti come piombo e cobalto.
Non era ancora buio ma non mancava poi tanto.
Mi alzai dalla sedia e come allucinato mi indirizzai senza parlare verso la mia auto.
Mentre guidavo guardavo il mare che appariva sulla mia destra. Con attenzione cercavo tra i solchi delle onde o tra le piccole aree scure infestate di vortici, qualcosa di quella creatura immaginaria.
Forse come nei film si sarebbe resa visibile solo a me.
Ero io, perché speciale in qualche modo, ad essere l’unico beneficiario di questa straordinaria apparizione.
Misi la freccia verso destra e iniziai a percorrere la strada per la spiaggia.
Sorridendo ripensai alle minchiate che nel mio vorticoso ragionare stavo elaborando per giustificare un ricordo.

Le casette a due piani addossate una all’altra, dai mille colori contrastanti e dalle persiane verdi mi accompagnavano verso l’ormai scuro mare. Le case dei pescatori avevano l’aspetto di una colorata e irregolare muraglia tra la spiaggia e il resto della città.

Scesi dall’auto e sentii la necessità di chiudermi la giacca ed alzarmi il bavero.
Una leggera brezza sembrava tagliare il volto. Mi ricordai al volo della fiaschetta in acciaio che tenevo nel portabagagli con la vodka. Frugai alcuni minuti in mezzo a vecchi giornali e buste di plastica con oggetti ormai scordati.
Trovata. Aveva il tappo leggermente verde di ossido.
Il calore esplose nell’esofago e piano scivolò verso lo stomaco.
Dopo un paio di sorsi chiusi il bagagliaio e mi avviai verso la spiaggia.
Adesso il vento feriva meno.