mercoledì 17 febbraio 2010

Giovanotto? Capitolo 5



Cola aveva ragione. Oggi pioveva ed il mare era molto agitato.
Giornata persa. Oggi niente conversazione sulla spiaggia umida.
Lo sapevo già ma non riuscivo a farmene una ragione.
Il mare era veramente agitato. Lo guardavo da lontano e come sempre ne restavo affascinato.
La sua forza e la potenza delle onde stranamente mi avevano sempre rilassato.

E’ uno spettacolo ascoltarne il suono. Prima si avverte come un rumore cupo e prolungato per poi udire le veloci e numerose detonazioni sulla riva. 
Mille petardi fatti esplodere in pochi secondi. Poi ancora il rombo dell’onda che segue preannunciato dal rumore di ghiaia risucchiata.
Mi allontanai dall’ufficio con una qualche scusa banale, talmente inventata che adesso non riuscivo neanche a ricordarla. 
Andai vicino la spiaggia. Questa volta era un po’ diverso rispetto a quando quel moto violento mi calmava. Adesso mi sentivo un po’ turbato. Sentivo un leggero vuoto allo stomaco come quelli che mi assalivano ai tempi degli esami all’università che se non li davo partivo militare.
Ero preoccupato.
Tutte le volte che passavo il tempo a guardare il mare in tempesta avevo la certezza che i pescherecci e le barche fossero tutte al riparo sulla spiaggia o dentro il porto. Non poteva esserci alcun rischio per i cristiani.
Stavolta però non riuscivo a non pensare a Cola.
Mosso e spinto dalle forti correnti in fondo al mare reggendo il suo pesante pilastro. Poi però lo immaginai come un pesce. Per la prima volta lo pensai così. Non più come un essere umano ma come una specie ittica assolutamente abituata alle forze marine. Credo che questa immagine in quel momento la scelsi per convenienza in modo da placare la mia ansia. Per lui è una situazione assolutamente normale pensai.
Cazzo però oggi è forte davvero. 
Le raffiche di vento disperdevano ovunque nubi d’acqua polverizzata. Sulla superficie irregolare e scossa del mare c’era una coltre giallo-grigia che ne accresceva l’immagine spaventosa.
Qualche cavallone aveva superato la spiaggia ed il muro della strada arrivando ad inondare la carreggiata. Le barche erano storte e accostate lungo quella barriera di cemento, rette da grosse catene agganciate a spade d’acciaio murate dai pescatori.
Adesso ero tanto vicino da sentire il viso bagnarsi. Le scarpe erano inzuppate e pesanti. 
Ad ogni passo verso la riva corrispondeva un flutto sempre più potente. 
Più io mi avvicinavo più il mare si gettava verso di me. 
Adesso ero come avvolto da quegli elementi. Sulla mia giacca correvano le lacrime del mare ed i capelli si erano schiacciati sulla testa. I pantaloni erano scuri d’acqua fino alle ginocchia e l’impetuoso susseguirsi di boati e schianti, deflagrazioni e rimbombi mi aveva ingoiato.
Cola non mi avrebbe potuto sentire in quel frastuono. Ma volevo che lui sapesse che io ero lì, nonostante tutto.
Iniziai allora a pronunciare a voce alta il suo nome. Non c’era nessuno nei dintorni. Nessuno si sarebbe avventurato così vicino a quella tormenta per non rischiare di infradiciarsi.
Gridai forte chiudendo perfino gli occhi per concentrarmi in quello sforzo.
Li riaprii di scatto per la fredda spinta che mi buttò per terra.

-          Cazzo Cola se volevi salutarmi potevi trovare un modo meno violento!

Ovviamente non rispose nessuno. Ovviamente ero inzuppato ed intirizzito. 
Ovviamente ero incazzato nero. 
Per un attimo mi credevo il figlio di Tritone e adesso mi sentivo solo un povero coglione. 
Mi ero infangato e graffiato una mano. Mi incamminai velocemente verso l’auto. 
I miei passi facevano lo stesso rumore della pigiatura tradizionale dell’uva.
Adesso pioveva anche più forte ma non mi preoccupava affatto vista la mia condizione. Frugai nel bagagliaio alla ricerca di qualcosa di utile per asciugarmi o cambiarmi. Niente. Trovai le pinne riposte in estate e perfino l’agenda di tre anni fa, qualche libro e una bomboniera di battesimo del figlio di un mio collega. 
Mi sembrò terribile quando me la diede ed oggi mi sembrava anche peggio.
-         Che ti è successo?
I miei colleghi mi guardavano sorpresi ed incuriositi e tutti comunque ridendo.
- No sai un mio amico aveva la barca sulla spiaggia e mi ha chiesto di aiutarlo a metterla al sicuro perché il mare se la stava portando via.
Mi balenò in un attimo quella scusa. Però funzionava bene, perché subito dopo tutti iniziavano a parlare di come questo mare avrebbe fatto danni e concludevano dicendo speriamo bene.
Trovai un termoventilatore, uno di quelli che normalmente si usa in bagno e mi ci attaccai. 
Aspettando che qualche indumento passasse dallo stato fradicio a quello umido cercai di pensare alle storie da raccontare a Cola.
Cercai, perché comunque in ufficio c’è sempre un casino di gente ed ogni ragionamento si interrompe centinaia di volte.
Mi è sempre piaciuto scrivere. Ho un blog ed in passato scrivevo per qualche giornale locale. Ma era cronaca o inchieste. Che potevo raccontargli, che avevano arrestato quell’amministratore locale o che avrebbero dovuto sorvegliare su un appalto pubblico?

Mi sovvennero alcune frasi che avevo scritto più di dieci anni addietro. 
Me ne ricordai perché anche a quel tempo tentai di raccontare alcune esperienze minime per un’insensata esigenza intima e personale. Il sabato del villaggio e il Bar Gradina. Già, questi erano i titoli di due racconti che avevo iniziato a scrivere.
Aprii con il doppio click la cartella con il mio nome. Foto, articoli, varie, racconti
Trovata. Doveva essere lì in Racconti.
Dentro una decina di file in formato word con nomi improbabili. Messina 20080624, oggi è stata una giornata…, in chiesa c’erano…, senza nome, ABCD
Erano tutti documenti di un paio di righe. Tanti inizi alcuni anche squallidi. Nessuna traccia dei racconti che cercavo però.

-         Pronto? Ciao scusa se ti disturbo ma avevo bisogno di chiederti una cosa urgente. Nel computer che ti ho dato l’anno scorso c’erano documenti?
-         Non credo… però se vuoi controllo. Comunque me lo hai dato almeno quattro anni fa ed io non lo uso neanche più. Dovrei averlo nel ripostiglio, controllo e ti chiamo.
-         Grazie.

Speravo che fossero lì in quel computer posato sullo scaffale accanto a scatole di scarpe e doposci. Speravo che il mio amico mi avrebbe richiamato per dirmi che aveva trovato i files nominati “il sabato del villaggio” e “bar gradina”.
Speravo che mi avrebbe dato presto questa conferma.
Li avrei stampati e letti a Cola tra una sigaretta e l’altra. Gli avrei detto prima che erano solo stupidi racconti scritti molti anni addietro per semplice diletto. Gli avrei detto che era l’unico modo per poter raccontare qualcosa senza rispondere a delle domande o ricevere l’invito a parlare di un argomento preciso. 
Insomma mi sarei vergognato un po’ ma infondo l’avrei considerato un buon modo per iniziare. 
Raccontare io per poter poi ascoltare lui.
-         Hai controllato?
-         Non ancora. Ma non mi avevi detto che era così urgente. Ci siamo sentiti due ore fa.
-         Ok è urgente allora.
-         Prima di stasera non avrò modo di controllare. Ti chiamo domani mattina.
Minchia, domani mattina…

Andai fuori a passeggiare. Dovevo allontanarmi da ogni distrazione.
Iniziai a ricostruire con pezzi sbiaditi di memoria i momenti in cui avevo scritto quei racconti.
Non erano importanti sotto l’aspetto letterario ma erano gli unici belli e pronti da poter usare con Cola. Niente cronaca o politica ma solo storie leggere e buone per rompere il ghiaccio.
Ricordai il portatile su cui scrivevo all’epoca ed anche la stanza e la luce che vi entrava dalla finestra in legno, una luce grigia da pozzo luce. Ero ancora a casa dei miei sulla scrivania della mia camera. Rammentai il pavimento in segato di marmo ed i poster alle pareti, il mobilio anni ’70 ed il copriletto a fiori. Ricordai anche l’età che avevo e per un attimo riprovai l’ebbrezza dell’essere talmente giovane.
Riprovai i sentimenti forti e dilanianti che all’epoca mi pervadevano non ancora soffocati dalla costante razionalità che oggi mi guidava. Come un lampo nel mio cervello si accesero voglie, fantasie e speranze, come un flash furiosamente accecante mi provocarono un brivido lungo la schiena. 
Com’era potuta cambiare così tanto la mia vita? Mi lasciai sopraffare dallo sconforto. Oggi ero un perfetto esempio di calcolatore umano di costi-benefici.
A quell’epoca invece perseguivo ogni possibile beneficio a tutti i costi. 
Volevo diventare un grande giornalista o uno stimato scrittore e con il mio lavoro, contribuire a cambiare il mondo.
Oggi facevo l’impiegato ed il mondo mi aveva cambiato. Vaffanculo!
La cosa peggiore era che di quel triste e tutto sommato veloce cambiamento non potevo accusare nessuno all’infuori di me stesso.
In fondo però pensai, per contrastare quei pensieri che mi avvilivano ed annientavano, che nella mia mente avevo mantenuto quell’insana voglia di contribuire a mutare il corso delle cose. 
Certo in modo marginale e poco ambizioso. Scrivevo ancora e continuavo ad incazzarmi.
Certo adesso riconoscevo meglio i colori e le tinte meno forti riuscendo a trovare le sfumature e coglierne le differenze. 
Forse stavo invecchiando.
Questo termine mi fece paura.
Non avevo mai considerato l’idea di aver smesso di essere “ragazzo” e quindi di essere divenuto uomo adulto. Certo mi sentivo più padre e molto meno figlio, ma pur sempre un padre ragazzo!
Che pensavano gli altri di me? Dicevano ancora che ero un ragazzo o descrivendomi usavano la parola uomo o ancor peggio signore?
38 anni rappresentano un’età proprio del cazzo pensai. Troppo grande per un fottio di cose che ancora mi interessavano e troppo giovane per altre che mi sembravano lontane. Ma che sono allora?
Una persona che ha smesso di essere giovane ed è in attesa di invecchiare? 
Un altro limbo, un’altra situazione precaria, un’altra attesa? 
La mia rabbia e la mia voglia di cambiare che fine avrebbero fatto?
Ricacciate dentro, chiuse, avvolte e represse come la carne schiacciata dentro un arancino?
Tra dodici anni mi sarei ritrovato, come quell’anziano signore che stava in fila in banca, a lamentarmi di qualunque cosa, tanto per placare il mio astio verso ciò che non ero riuscito a fare, perdendomi nel qualunquismo da fermata del tram?
Provai una profonda pena per me stesso. 
Schioccando quasi le dita lanciai la sigaretta lontano. Sentivo ancora freddo alle gambe ancora avvolte nella stoffa umida. Rientrai in ufficio in silenzio e scuro in volto. Mi misi a lavorare con un assoluto senso di ineluttabile disfacimento.

Bussarono alla porta a vetri.
 Un vecchietto con occhiali e coppola mi si fece incontro sorridente.
-         Giovanotto è qui che si ritirano le fatture?
Sorrisi quasi commosso.
-         Si è qui, si accomodi.
Vaffanculo! Per questo signore, che dalle cifre del codice fiscale capii avere più di ottant’anni, ero ancora un giovanotto!
Ripensai che anche mio padre ogni tanto mi chiamava giovanotto. Mi sentii un po’ meglio.


giovedì 4 febbraio 2010

Capitolo 4


Il cielo all’improvviso tuonò.
Nessun lampo e nessun borbottio di preavviso. 
Forti e veloci le nuvole grigie urtarono contro quelle nere provocando evidentemente quel potente suono elettrico cupo e tagliente allo stesso tempo.
Aveva appena risposto Cola quando una leggera pioggerellina incominciò a pungere il mare.
Sulla sabbia piccoli puntini uniformavano la superficie.

-         Si è messo a piovere.
-         Ti conviene andare o ti inzupperai tutto.

Il mare adesso raccoglieva la pioggia gonfiandosi e leccando gli scogli con un’onda più lunga.
Avrei voluto dire a Cola che ormai non vedevo l’ora di poter raggiungere quella spiaggia e parlare con lui, ma quello strano e rigido imbarazzo che spinge soprattutto gli uomini a reprimere gli slanci amichevoli e d’affetto, mi bloccò.
Ci pensò lui a togliere questo imbarazzo.
-         Speravo tornassi presto. Avevo proprio voglia di parlare con qualcuno.
-         Anch’io.
Per dirla tutta ormai non facevo che pensare a quegli incontri. Non riuscivo ad affrontare alcun impegno senza viverlo come un impedimento ai miei colloqui con Cola. Ma non aggiunsi altro.
Diluviava. La pioggia ormai avvolgeva tutto. Le scarpe affondarono nella sabbia e sentii l’umido nelle caviglie. Gocce scendevano cadenzate dai capelli.
-         Cola vado.
-         Sì, è meglio. Spero di vederti presto e di ascoltarti soprattutto.
-         Credo sia tu quello con più cose da dire.
-         Facciamo un patto allora, prima racconta tu e poi lo farò io.
-         La mia vita è meno di un ventesimo della tua, cosa potrei dirti che tu non sappia già?
-         Tanto. Più di quanto tu possa credere, anzi, magari la prossima volta mi racconterai qualcosa di te.

Ormai lo scroscio dell’acqua era divenuto rumoroso e violento. Ero zuppo fino alle ginocchia e la giacca era divenuta pesantissima.
-         Cola a presto. Se non piove, vengo domani.
-         Domani sarà ancora così ed il mare sarà molto agitato. Magari dopodomani.
-         Se lo dici tu…
-         A dopodomani.

Ritornai alla macchina ma non entrai velocemente perché, come un coglione, pensavo che avrei irrorato probabilmente in modo irreparabile il sedile.
Entrai e cercai di posarmi con cautela sul tessuto come per preservarlo da un danno fatale senza neanche poggiarmi allo schienale. Impostai la temperatura a 24° ed aspettai che arrivasse il caldo alito dalle bocchette del riscaldamento prima di partire.

Mi incolonnai nel flusso delle auto che si spostava verso la città. Erano le undici e potevo ancora fare in tempo per un po’ di “cose di lavoro”.
Avevo segnato tutto su un foglietto. 
Dimentico sempre di portare le agende con me. Mi impediscono i movimenti. 
Ne compro sempre di belle e tascabili: nei primi giorni ci riporto tutto diligentemente, poi però mi stufo e le abbandono a casa, in macchina o in ufficio.
La lista era lunga. Giro di banche varie. In una per un bonifico ed in un’altra per un carnet. 
Sarei anche potuto andare in un'altra per portare i bilanci.

Il fatto che il tempo stamattina non promettesse altro che pioggia e freddo aveva reso possibile l’incontro con Cola. La spiaggia era deserta. I pescatori conoscono i venti e le maree. Loro sapevano che avrebbe diluviato. 
Io no. Pensavo solo che ci fosse una giornata coperta, forse anche una breve e leggera precipitazione ma mai sto cazzo di tempesta.
Le strade erano bloccate. Arrivare al centro sarebbe stato impossibile.
Con la musica in sottofondo rivolgevo lo sguardo all’interno dell’abitacolo delle auto in fila. 
Placidamente godevo della frenesia degli occupanti restandone assolutamente indenne. 
Ingolfati dentro giacconi ingombranti e nervosi come cani legati ad un palo, manifestavano la loro rabbia agitandosi con il corpo e disegnando con le braccia strani paesaggi. 
Assistevo a bambini impauriti ed ammutoliti nei sedili di dietro mentre genitori inferociti nei posti davanti pronunciavano bestemmie ritmate dal movimento dei tergicristalli.
Misi una R accanto a quasi tutti gli impegni annotati nel foglietto. R sta per rinviato.
Ne lasciai uno vuoto.
Banca Agricola. E’ qui vicino. Ci arrivo anche senza addentrarmi verso il nucleo dell’ingorgo.
Però ora sentivo freddo dappertutto.
Io gli ombrelli non li sopporto. Li trovo utili all’inizio ma poi è come per le agende.
Misi l’ipod e mi incamminai riparandomi con l’unico ombrello trovato in macchina.
Aveva un arco rotto e penzolava da un lato. Era vecchissimo. Preso alcuni anni addietro all’Agip. Aveva traslocato in un paio di auto ed era giunto adesso nel cofano di questa. Il colore originale credo fosse giallo ma adesso sembrava una sorta di senape con striature grigie.
Mi vergognavo un po’.
Lo lasciai con indifferenza nel portaombrelli prima della porta a bussola della banca. 
Entrai e vidi che l’agenzia era molto affollata. Sarà giornata di scadenze. 
Presi il numero. 49: guardai il display che segnava 29. In termini di tempo equivaleva ad un’ora almeno. Mi guardai attorno per vedere se c’era qualcuno tra i clienti che conoscevo. Nessuno per fortuna. Mi misi in un angolo lontano dalla folla. Potevo controllare il procedere della fila e non avere nessuno attorno. Aumentai il volume e iniziai a rilassarmi. Lo facevo spesso. Guardavo l’affannoso vivere delle persone che come formiche compiono gesti rituali e a volte inutili. Mettevo la musica e li osservavo come fossero dentro un contenitore di vetro da cui non proveniva alcun suono.
Il signore con il cappello ha una certa età ma tenta sempre di attaccare bottone con quella donna giovane che siede di fronte. C’è poi quello che guarda verso le casse e scuote la testa. A volte muove la mano su e giù. Fila o non fila lui è sempre scontento di aspettare. Lui è fermamente convinto che i cassieri non facciano il loro dovere. Per lui, nessuno svolge davvero il proprio dovere. Alla posta o sul tram, dal medico o al supermercato. Cazzo deve sempre aspettare. Ah se comandasse lui…
La signora anziana seduta sulla destra teneva in mano dei fogli di carta. Aveva il cappotto grigio e le scarpe della farmacia. Doveva prelevare trecento euro ma non sapeva usare il bancomat. Al cassiere avrebbe chiesto una banconota da cento, due da cinquanta e dieci da dieci euro per i nipoti e la bottega della frutta che non ha mai resto.
Nel cervello si irradiava dagli auricolari l’organo di Tunnel of love ed a stento riuscivo a trattenere di battere il tempo con il piede.
Da una porta a vetri uscì il direttore ed alcuni clienti gli si fecero incontro. Qualcuno sembrava lamentarsi della fila, dei costi bancari e di altre mille cose.
Era fantastico vederli muoversi come burattini silenziosi mentre la chitarra di Mark Knopfler lacerava i muscoli della mia mano destra facendola danzare su e giù come tenendo stretto un plettro.

-         Dovrei prendere un carnet per favore.
-         Lei ha la delega vero?
-         Certo.

Fuori pioveva ancora a dirotto. Fui costretto a riprendere il relitto d’ombrello dentro il cilindro in metallo nero. Mi ritrovai così di nuovo incolonnato verso la scuola di mia figlia.
Cercai di pensare a cosa poter raccontare a Cola nei prossimi incontri. Quali avvenimenti della mia vita potevano destare il suo interesse? Che parte di me poteva rivelarsi interessanti per un uomo che da centinaia di anni viveva in fondo al mare? Lui che l’ultimo mondo visto, era quello del 1300. Lui che quando mangiava non aveva ancora la forchetta.
Poi per un attimo iniziai a pensare a le poche cose che ricordavo del medioevo. 
Ma ancor di più iniziai ad immaginare come si poteva vivere in un piccolo borgo di mare in quel periodo. Casupole e barche a remi. Candele e orinali. Piccoli orti e strani vestiti. Ignoranza assoluta e diarree mortali. Volgare in strada e latino in chiesa.
Capii allora la voglia di sapere che spingeva Cola a cercare un contatto in superficie.
Voleva conoscere e capire. 
Ma come sarei riuscito io a spiegare in che modo il mondo era cambiato? Attraverso la mia vita o le mie impressioni come avrei potuto infondere la conoscenza di qualcosa che non riuscivo a capire io per primo.
Ma pur consapevole della mia incapacità a comprendere gli inspiegabili controsensi che questo mondo genera, quali parole avrei usato per far nascere in lui le stesse perplessità?

Mia figlia mi fece un cenno con la mano, mi accostai ed il mio strano ragionamento svanì nel turbinio della sua leggera spensieratezza.
La sua energia volta a scoprire lietamente, crescendo e vivendo, quel mondo che avrei dovuto spiegare anche a Cola mi sembrò la risposta ad ogni incertezza.