giovedì 21 gennaio 2010

Umido bagnato e freddo. Capitolo Terzo






Umido bagnato e freddo.
Il panorama che si estendeva davanti ai miei occhi era così.
Un vento gelido sollevava piccole goccioline di acqua che nebulizzavano ogni cosa.
Le barche e le piccole cassettine in metallo che racchiudevano i verricelli a scoppio, le bottiglie di plastica ed i pezzi di tronchi che affollavano la spiaggia. Tutto era spruzzato di acqua e sale.
Più mi avvicinavo alla riva e più subivo la stessa sorte degli oggetti che vi risiedevano.
Il vento non soffiava continuo lasciando il tempo per un attimo al senso di umidità sulla pelle e sui vestiti.
Avevo scelto una giornata sbagliata.
Frugai in tasca e presi il pacchetto di sigarette, lo aprii ed al volo le contai approssimativamente con un rapido sguardo mentre ne sfilavo una.
Erano sufficienti per il tempo che mi ripromettevo di trascorrere in balia di quel maestrale.
Fumavo e passeggiavo piano sull’arenile attento a scansare le onde che di tanto in tanto si spingevano più in alto.
Cazzo che freddo.
Perché avevo lasciato la vodka in macchina?
Avevo il classico atteggiamento di chi si sforza di apparire indifferente. Un passante o ancora meglio uno che aspetta, un amico, un parente, un cliente, un cristochiunque che lo venga a prendere e nel frattempo fa due passi.
Pensavo che qualcuno da dietro le persiane delle casette aldilà della strada potesse osservarmi. Un maresciallo in pensione avvisato dalla moglie che stava stendendo i panni, si fosse messo lì per controllare quello sconosciuto che quasi al buio si aggirava vicino le loro case. Un tossico, un ladro, un suicida.
Guardavo l’orologio per avvalorare la scusa di quello che aspetta e sbuffando sussurravo: cazzo sempre in ritardo!
Durante tutta questa sorta di recita mimica stavo attento a scorgere nel mare qualche segno della mitica creatura e sulla spiaggia qualche segno dello stronzo pescatore.

Il tempo passava, l’umidità si addentrava sempre più in fondo nelle ossa e non succedeva nulla.
Forse non mi sentiva.
Dalla strada arrivava ogni tanto il rumore di auto e motorini. Troppo rumore, troppa confusione c’era ancora per potersi rivelare.
Eppure avevo la sensazione che quel respiro che ricordavo di aver sentito la sera prima adesso era nuovamente presente. Era già trascorsa più di un’ora e mezza e per provare un po’ di calore avevo già fumato cinque sigarette. Soffiavo il fumo nelle mani per riscaldarle.
Quello sbuffo ciclico diventava sempre più percettibile. Forse cambiava la corrente.
Il vento era calato ma l’aria era più fredda.
La costa della Calabria adesso era sfumata dalle luci dell’illuminazione stradale.
Non si scorgevano quasi più i contorni delle montagne e delle pianure. Una lunga coda nera tempestata ai margini di pietre arancio.
Mi fermai davanti alla boa, la stessa che ricordavo nel caleidoscopio di sensazioni di ieri.
A pochi metri c’era un mattone forato reso liscio dal sale e dal sole. Lo scollai dalla sabbia e lo spostai nella traiettoria della boa. Lo misi in verticale e lo usai come sgabello.
Seduto sentii la testa indolenzita e ghiacciata. Le tempie mi battevano forte.
Cazzo la testa.
Il vento aveva innescato una delle mie feroci crisi di mal di testa.
Un dolore forte e debilitante che si sarebbe arrestato solo chiudendo gli occhi dopo aver assunto 600 milligrammi di ibuprofene.
Qui non si sente nessuno.
Ma quanto sono coglione… che speravo di trovare?
Chiusi gli occhi e mi strinsi la testa tra le mani.
- Stai male?
Alzai di botto la testa e mi iniziò a girare tutto. La boa, gli scogli, il mare e le luci gialle giravano tutte attorno.
-         Sei tornato.
-         Sono tornato. Però sto male.
-         Che hai?
-         Interessarsi dell’interlocutore è un mio insegnamento.
-         E’ una regola di buona creanza.
Parlavo con gli occhi socchiusi per le fitte che mi ferivano da dentro la testa. Non riuscivo a gridare e neanche ad usare un tono alto ma lui sentiva lo stesso.

-         Ma se non grido come fai a sentirmi ugualmente da là sotto?
-         Sono molto più vicino di quanto pensi. Di tanto in tanto riesco a risalire quasi in superficie. Certo per poco, non posso lasciare il mio posto a lungo altrimenti sarebbe finita. Per voi.
-          
Gli spiegai che ero lì intanto per capire se quella conversazione che ricordavo del giorno prima era realtà o solo immaginazione. Poi perché forse per via dell’alcol, quella sera non avevo dato la giusta importanza all’evento.
-         Pensavo di essere diventato pazzo, sai.
-         Non sei il solo. Altre volte ho cercato contatti con voi della superficie. Di rado per la verità. Le poche volte che ci sono riuscito però non è durato a lungo. I miei amici, per così dire, dopo poco tempo, davano strane reazioni e finivano con l’essere emarginati e scherniti. Insomma venivano presi per folli e non tornavano più.
-         Minchia! Vuoi dire che verrò rinchiuso pure io?
-         Io questo non lo so. Io non so neanche perché poi tutti dobbiate raccontare di quello che vi dico. Certo mi rendo conto che è questo il rischio che si corre a dire che si parla con un “mito”.
-         Però devi anche capire che è quasi inevitabile, vista la straordinarietà della cosa.
-         Vedrai che neanche le persone più vicine ti crederanno.
-         Vabbè ma io a queste cose non ho ancora pensato. Quindi…
-         Continuiamo?
-         Cola ascolta, sento freddo da morire, ho un mal di testa che tra poco vomito e credi che sia rimasto qui per smettere?
-         Allora continuiamo. Ho anch’io tante cose da chiederti. Ho dei vuoti e vorrei capire se sia ancora giusto sostenervi o non sia meglio mollare tutto ed abbandonarvi al destino di naufraghi.
Mi accesi una sigaretta e iniziai a dialogare calmo e sereno con quella voce che veniva dal mare.
Ero costretto a parlare strizzando gli occhi per il dolore trattenendo anche una sorta di languore e nausea. 
-         Cola sto di merda. Non so per quanto tempo riuscirò a stare qui.
-         Ma guarda che puoi andare quando vuoi.
-         Sì, ma prima di andare via voglio sapere come posso fare per riparlarti. Quando e dove.
-         Guarda che io sono sempre qua, da centinaia di anni.
-         Sì d’accordo ma vuol dire che se vengo domani mattina possiamo continuare a parlare?
-         Potrebbe essere possibile ma preferirei quando non c’è confusione.
-         E se tu sei in fondo a reggere la tua colonna come fai a sentirmi?
-         Stai tranquillo, ho ormai imparato a memoria la modulazione della tua voce. Tira un sasso più lontano che puoi e subito dopo pronuncia il mio nome a pelo d’acqua.
-         Bene. Adesso vado. Buonanotte.
-         Buonanotte anche a te.
Mi alzai piano e mi incamminai verso la macchina. Ero a qualche metro quando mi piegai d’un tratto a vomitare.

La mattina mi svegliai più sereno. Sapevo che non si era trattato di un sogno.
Sapevo che ero il “prescelto”.
Pioveva ma stranamente quella condizione meteorologica sfavorevole non mi causava nervosismo. Portai mia figlia a scuola con la macchina e la lunga fila di auto incolonnate in quella via stretta e otturata dalle auto in sosta, non riusciva a farmi smettere di sorridere.
-         Ciao papà, ci vediamo all’uscita.
-         Ciao stella, fai la brava.
Tanto lo sapevo che era brava. Tutti i professori lo dicevano. Ma un papà che altro può raccomandare.
Nella strada verso l’ufficio accesi la prima sigaretta della giornata.
Iniziai a riflettere su tutte le parole che ci eravamo scambiati con Cola. Glissai su quelle che parlavano di follia e di manicomi. Mi concentrai sui suoi “vuoti” e su quello che avrei potuto e saputo dire per colmarli.

In ufficio feci la mia solita rassegna stampa consultando su internet i miei quotidiani on line ed i siti preferiti. Neanche le notizie che come sempre restituivano l’immagine di un paese allo sbando senza giustizia e senza verità, riuscirono a rattristarmi. Ci si abitua anche al peggio.
L’assuefazione è un cancro che distrugge ogni forma di vita e ogni reazione ad essa legata. L’indignazione e la rabbia si gonfiano come bolle di sapone pronte ad esplodere mute nell’aria dopo pochi secondi.

15 Gennaio 2010 da strill.it

E' partito da pochi minuti da Piazza Castronovo, a Messina, un corteo al quale partecipano circa 200 sfollati delle zone colpite dal nubifragio del primo ottobre. I manifestanti protestano contro le decisioni del sindaco di far tornare, nelle zone considerate sicure dalla Protezione civile, molti cittadini che invece chiedono prima la messa in sicurezza della montagna. ''Non torneremo nelle nostre abitazioni - ha detto il presidente del comitato - abbiamo paura e pretendiamo che prima sia messa in sicurezza la montagna. Il sindaco dice che non siamo obbligati a tornare, ma c'e' un ricatto psicologico perche' a chi non torna nelle proprie case non sara' piu' pagato l'albergo o il sussidio''. ''Molti cittadini - aggiunge - nonostante la paura, sono gia' rientrati nelle loro case perche' non sanno come pagarsi l'affitto di un appartamento''.

15 Gennaio 2010 da blog locale

Giampilieri – manifestazione a tre mesi dalla Tragedia – «Attese e Speranze»

In una grigia plumbea giornata, i Cittadini Messinesi, colpiti dalla sciagura del 1° Ottobre, si sono riuniti di fronte alla Prefettura per far sentire la loro voce.
Diversi i cartelli, che vogliono testimoniare la voglia di partecipazione alle scelte che le autorità preposte dovranno prendere. E’ un grido di dolore di chi ha i bambini che vivono in un paese deserto e senza colori. I colori in verità ci sono: sono quelli delle varie zone, verdi, rosse, gialle, viola. Ma non portano gioia, solo tristezza. La casa divisa a metà, tra zona rossa e zona verde, sembra più una boutade, che il risultato di una ponderata scelta tecnica.  In ogni caso mortifica le persone che devono subire questi ulteriori disagi.

Ero un’altra volta su quella spiaggia.
Non ricordo come ci fossi arrivato ma ero lì. La sabbia era dura e compatta per la pioggia. Il mare era scuro e fermo come intimorito dai nuvoloni scuri che lo sovrastavano.
Io nuovamente lì per cercare il mio “amico”. Lo consideravo così, perché dovevo essere l’unico evidentemente che in questo momento riusciva a parlare con lui. Magari l’unico di questo decennio o forse anche di questo secolo.
Lo vedevo come un uomo solo, incapace e impossibilitato a trovare un dialogo con gli esseri umani. Mi sembrava di leggere anche un certo doloroso bisogno di comunicare.
Faceva meno freddo e nonostante la monotonia dei colori, lo stretto era splendido. L’aria tersa rifletteva un paesaggio ricco di contrasti come un bassorilievo d’argento.
Cercai un sasso da lanciare lontano. Mi inginocchiai sulla battigia e pronunciai il suo nome.



venerdì 15 gennaio 2010

La leggenda di Colapesce. Capitolo II




Non riuscivo a ricordare.
Per quanto mi sforzassi di quella sera mi restavano in mente solo alcune sbiadite percezioni.
Una boa arancio che ondeggiava piano brillando sotto la luce della luna, i sassolini umidi sotto il culo e l’ombra scura della fila di massi che cingeva la riva.
Vagamente mi giungeva la voce di Giovanni che cantava canzoni popolari siciliane appena prima di cadere sfinito sulle tavole umide ed azzurre dell’entrobordo.
Rammentavo anche il gusto un po’ tannico nel palato e la sensazione tagliente di salsedine sulle labbra riscaldate dalle decine di sigarette fumate.
Certo poi quelle parole.
Quella voce calma di uomo giovane che sembrava sgorgare dalla schiuma bianca delle minuscole onde.

Capita a tutti di sognare qualcosa e svegliarsi con quella sensazione di averla vissuta realmente. Un sogno che diviene quasi ricordo per la ricchezza di dettagli e di sensi che sembra a volte realmente accaduto.
Ma stavolta era più forte. Forse amplificato dall’alcol e dalla suggestione dello Stretto.

Forse su quella spiaggia in questo momento c’era un pescatore che raccontava ad altri amici appoggiati alle barche, intenti a preparare consi e cucire nasse, la storiella di come aveva preso in giro un giovane cittadino per tutta la notte.
Ancor peggio poteva essere tutto frutto della mia immaginazione.
La mia mente lanciava i primi segnali di cedimento?
Capita. Lo stress gioca brutti scherzi.
Ci sono centri di igiene mentale pieni di giovani stressati che credono di vedere gli alieni o di parlare con dio.

Stavo diventando pazzo o ero abilmente caduto nelle reti di un abile pescatore giocherellone?
Mi avrebbero imbottito di inibitori della serotonina o avrebbero riso per sempre del coglione che credeva di parlare con Colapesce.

In un modo o in un altro dovevo capire. Almeno per evitare di assumere farmaci inutilmente.
Dovevo tornare su quella spiaggia.
Sì ma quando.
Di giorno avrei trovato gente che passeggiava con il cane e padri separati con il figlio per mano.
Avrei rischiato di trovare magari quel bastardo di pescatore che mi aveva tirato questo brutto scherzo.
Allora di notte.
Ma come avrei fatto?
Che avrei raccontato a casa?
Dovevo andare sulla spiaggia a capire se stavo uscendo pazzo o se invece mi avevano fottuto (non capisco perché ma la seconda ipotesi mi spaventava meno ma mi faceva molta più rabbia).

Magari avrei scelto il tardo pomeriggio. Verso le sei e mezza in questo periodo è già buio e avrei trovato la spiaggia libera. Era l’unica soluzione per togliermi ogni dubbio. Ci sarei andato oggi stesso. Ora mi sarei messo a lavorare senza pensare a queste stronzate e poi sarei andato nello stesso punto dove mi ero seduto ieri sera.

Entrai in ufficio e mi misi davanti al computer. Dovevo preparare alcune lettere e registrato alcune fatture.
Sì insomma avevo tante cose da fare che mi avrebbero aiutato di sicuro a trascorrere queste ore d’attesa senza pensare a Colapesce.

Non feci nulla di tutto questo.
Non riuscii neanche ad avviare il programma di contabilità.
Nella barra delle ricerche di internet cercai “colapesce”.
86.300 voci sul termine ricercato. La prima riporta che la legenda di Colapesce è un racconto con molte varianti le cui prime risalgono al 1300.

Tutte narrano di questo giovane messinese figlio di pescatori di nome Nicola ma chiamato con il diminutivo Cola e detto Colapesce per la sua abilità di nuotatore.
Nel mare si comportava proprio come un pesce.
Un giorno il re incuriosito dalla sua fama lo volle mettere alla prova e dopo avergli fatto raccogliere oggetti preziosi che egli stesso lanciava nel mare profondo, gli chiese di andare a controllare cosa ci fosse sul fondo del mare.
Cola si immerse e gli raccontò di tre colonne che reggevano la Sicilia. 
Una era però di fuoco e vacillava.
Il re gli chiese di raccogliere un po’ di quel fuoco.
Cola ritornò negli abissi e non riemerse più.
Per tutti Cola scelse di reggere l’isola a causa della sua instabilità.

Rimasi colpito tra le decine di versioni della legenda da una che riportava alla fine un messaggio di speranza: Ci sono anche di quelli che dicono che Cola tornerà in terra quando fra gli uomini non vi sarà, nessuno che soffra per dolore o per castigo.

 Il telefono squillò. Un trillo che mi riportava alla vita reale.
Un richiamo che cancellava sogni leggende e ricordi.

-         Pronto?
-         Sì, ci vediamo più tardi.
-         No alle diciotto non è possibile, ho un appuntamento importante fuori ufficio.
-         Facciamo per domani allora.

Non potevo minimamente lasciare che nulla interferisse con quel mio impegno.
Quella spiaggia, quella boa arancio e quella fila di massi sarebbero stati la mia meta.
Come una biglia che rotola inesorabilmente su di un piano inclinato, era lì che mi sarei fiondato appena buio.
Non riuscii a pranzare né a compiere quelle quotidiane operazioni che ogni giorno accompagnavano la mia vita da impiegato. Ad ogni principio di conversazione sfuggivo usando le scuse più banali.
Scusa ma ho un forte mal di testa.
Ora non posso, devo fare una chiamata urgente.
 Non volevo che nulla mi distogliesse dalla mia missione. Come un kamikaze ripetevo piano come una litania quello che avrei fatto. Nulla poteva interferire con il mio proposito, non potevo permetterlo.

Il tramonto illuminava di rosso il Tirreno e le ombre scure avvolgevano già la costa ionica della Calabria e della Sicilia.
Il piccolo canale di mare aveva adesso colori forti come piombo e cobalto.
Non era ancora buio ma non mancava poi tanto.
Mi alzai dalla sedia e come allucinato mi indirizzai senza parlare verso la mia auto.
Mentre guidavo guardavo il mare che appariva sulla mia destra. Con attenzione cercavo tra i solchi delle onde o tra le piccole aree scure infestate di vortici, qualcosa di quella creatura immaginaria.
Forse come nei film si sarebbe resa visibile solo a me.
Ero io, perché speciale in qualche modo, ad essere l’unico beneficiario di questa straordinaria apparizione.
Misi la freccia verso destra e iniziai a percorrere la strada per la spiaggia.
Sorridendo ripensai alle minchiate che nel mio vorticoso ragionare stavo elaborando per giustificare un ricordo.

Le casette a due piani addossate una all’altra, dai mille colori contrastanti e dalle persiane verdi mi accompagnavano verso l’ormai scuro mare. Le case dei pescatori avevano l’aspetto di una colorata e irregolare muraglia tra la spiaggia e il resto della città.

Scesi dall’auto e sentii la necessità di chiudermi la giacca ed alzarmi il bavero.
Una leggera brezza sembrava tagliare il volto. Mi ricordai al volo della fiaschetta in acciaio che tenevo nel portabagagli con la vodka. Frugai alcuni minuti in mezzo a vecchi giornali e buste di plastica con oggetti ormai scordati.
Trovata. Aveva il tappo leggermente verde di ossido.
Il calore esplose nell’esofago e piano scivolò verso lo stomaco.
Dopo un paio di sorsi chiusi il bagagliaio e mi avviai verso la spiaggia.
Adesso il vento feriva meno.

   

lunedì 4 gennaio 2010

Come ho conosciuto Colapesce. Capitolo Primo



Una musica incomprensibile risuonava nella stanza.
Una melodia sparata sui medio-alti quasi citofonica: la radiosveglia.
Dopo l’udito a risvegliarsi di botto, sono stati nell’ordine la vista ed il tatto. La luce grigia di una mattina di pioggia.
Il liscio e morbido calore delle lenzuola.
Poi come un colpo di pistola, forte e improvviso, arriva la morsa alla nuca ed alle tempie.
Il mal di testa della mattina è avvilente.
Ieri sera il rossosiciliano, come lo chiama il mio collega, ha valicato la soglia della tolleranza andando ad invadere i vasi e gli anfratti del cervello, pressando adesso sulle sue pareti. Cazzo ho esagerato.
Tento di ricordare, di rivedere le scene della sera prima. E’ tutto un po’ offuscato.
Le immagini mi arrivano come filtrate da una luce rossa, intensa e scura. Come guardare le foto che piano piano spuntano sulla carta messa a bagno negli acidi di una camera oscura.
Un tavolo di un locale vicino al mare. Il tovagliato blu e oro ed i piatti squadrati. Poi quel bicchiere colmo, poi vuoto e poi colmo.
Si parlava di lavoro, di cazzate e di politica. Io e Giovanni, il mio collega appunto.
La sala scarsamente affollata.
Ricordo adesso la sigaretta accesa all’uscita e la sensazione di leggerezza provata al fresco pungente di quella brezza marina. Si sentiva il mare. Si sentiva l’odore ed il suo respiro.
Guidare adesso non era il caso.
- Facciamo due passi verso la spiaggia.
Le nostre voci sembravano le uniche in quel piccolo scorcio di mondo. Era abbondantemente passata la mezzanotte ed aveva piovuto fino a poco prima di uscire dal locale.
Poi nuovamente il vuoto. Sabbia e salsedine.
Parole, risate e confidenze da ubriachi.
Giovanni adesso dormiva adagiato in posizione fetale su un entrobordo da pesca messo a riparo sulla spiaggia. Io sulla rena che cammino storto e lento.
Poi un sospiro. Mi volto verso il mare. Niente.
Ma il sospiro adesso è continuo. Un suono come di un lieve lamento. Mi gira la testa. Sorrido e giro su me stesso.
Ancora quel suono.
Adesso avevo forse anche un po’ di paura.


Poi mi sarò addormentato sfinito dalla stanchezza e dai fumi alcolici. Si, devo aver dormito necessariamente perché ora ricordo il sogno che ne è seguito.


Dal nero del mare, illuminato di grigio in lontananza dalla luna, arrivò ad un tratto una voce.
Un po’ soffocata e coperta.
- Sono Cola...
- Sono Cola...
Non riuscivo a vedere nulla se non quella lastra scura e lucente del mare. Qualche barca da pesca attaccata alla boa e la spiaggia desolata.
In quel tratto le case erano assai distanti per poter arrivare ad emettere quei suoni, modulare quella voce. Qualcuno parlava però.
Come da dietro un vetro, da dentro qualcosa…
- Sono Cola, tu chi sei? … Chi sei?
Sono un passante dissi timidamente.
Non sapevo cos’altro rispondere. Non sapevo a chi stessi parlando.
Qualche pescatore incazzato perché il mio collega aveva scambiato la sua barca per un comodo ed umido riparo per la notte?
Qualcuno preoccupato per le reti posate dentro i fusti di plastica accanto ai verricelli a scoppio.
- Come ti chiami?
- Chi parla?
Risposi con la voce troppo alta, gridando forse. Rimbombò tutto intorno.
- Sono Cola
La voce era adesso ferma e decisa.
 - Sono nel mare.
Iniziai ad osservare con insistenza la fila di scogli che cingeva per una ventina di metri la costa.
Era tutto in ombra e dai profili diritti dei blocchi di cemento non si scorgeva nessuna figura umana.
 - Sono dentro il mare.
Non capivo se le parole che arrivavano alle orecchie erano alterate dalla sbronza o se qualcuno stava allegramente prendendomi per il culo.
Stringevo gli occhi e cercavo di concentrarmi su quei suoni.
Mi piegai e raccolsi dell’acqua schiumosa dal mare. Mi bagnai la fronte e le guance. Scottavo.
- Che vuol dire che sei dentro il mare, non ti vedo.
Adesso moderai il tono e mi rivolsi alla boa come se fosse a pochi metri da me.
- Non puoi vedermi, sono infondo al mare. Sono Cola!
- Io sono davide e sono sulla spiaggia ma non capisco comunque!
- Sei messinese?
- Si, certo sono di Messina.
- E che cazzo vi spiegano a scuola, non conosci la mia storia?
- Perché dovrei conoscere la storia di uno che di notte prende in giro la gente sulla spiaggia.
- Minchia, sono Colapesce!
- Si, ed io sono Giufà.


 Le immagini nella mia mente si fecero nuovamente sbiadite, bruciate da una forte luce.
Un sogno che si dipanava nella mente, sgocciolando sensazioni e suoni quasi reali e vissuti.
Mi alzai barcollando ed andai a lavarmi il viso. Lo specchio implacabile mi restituì l’immagine di un uomo con gli occhi gonfi ed il viso segnato dal dolore.


 - Non credi sia un po’ incredibile che io stia parlando con Colapesce?
- Certo che lo è, ma a volte le verità appaiono come inverosimili.


La luna si era spostata ed evidentemente era trascorso del tempo dal principio della conversazione.
Ora ero seduto e parlavo rivolto verso il mare, guardando un po’ la costa calabrese con le luci gialle degli imbarcaderi e un po’ una boa sbiadita libera da cime e solitaria che galleggiava ad una decina di metri dalla riva.
- Come stai?
- Stanco, sempre più stanco. Che strana domanda che mi hai fatto.
- Perché strana?
- Ad una creatura mitica e fantastica è difficile pensare di chiedere lo stato di salute?
- Credo sia il minimo… interessarsi dell’altro interlocutore.
- Si hai ragione dovrebbe essere così. Ma andiamo al sodo. Se mi sono deciso a parlare con un umano dopo tanti secoli è perché ho bisogno di capire alcune cose. Mi è indispensabile.
- Chiedimi quello che vuoi.
- Si ma devi essere sincero nelle tue risposte. Ti chiedo di parlare con la verità, non come siete abituati voi lassù.


Mi si aprivano sprazzi di lunghi monologhi che la voce dentro al mare faceva. Mi raccontava di come riusciva a sentire ciò che accadeva nel mondo emerso. Lo capiva dai suoni e dalle voci che attraverso la terra ed il mare gli giungevano. Mi ha anche deliziato con una dissertazione sulla conduzione del suono attraverso i solidi. Riusciva ad avvertire dei cambiamenti anche da come l’acqua del mare gli arrivava a centinaia di metri di profondità.
Mi raccontava di come tutto andava lordandosi. Del peso che avvertiva sulla spalla ad ogni palazzo che veniva eretto nella parte nord-orientale della Sicilia.
Anche l’uno ottobre sentì un forte rumore. Uno scossone che gli aveva fatto tremare le braccia.
- Deve essere successo qualcosa di grave, vero?
- Si, molto grave. Tanti morti e tanta disperazione.
- Ho sentito il rumore di oggetti volanti per un paio di giorni. Ho avvertito sirene e crolli. Alcune urla che poi sono divenuti pianti e poi flebili lamenti. Poi silenzio.
- Due paesi sono stati avvolti dal fango. Un costone di una montagna si è sgretolato sotto la pioggia avvolgendo uomini e cose.


- Io quando piove lo sento, ma non mi sembrava che fosse così forte, ci deve essere qualcos’altro? ricordati la sincerità.
- Hai proprio una fissazione con la sincerità. Perchè dovrei mentirti? 
- Io non conosco il motivo per cui tu possa farlo, però ricordati che io sono finito quaggiù per colpa di una menzogna.
- Ascolta,  io vuoi perchè brillo, vuoi perchè così sono fatto, ti sto dicendo tutta la verità. 



Silenzio. Solo nuovamente il leggero rumore del mare. Mi guardai attorno e tutto era immutato. 
Mi sentivo un pò coglione, forse avevo immaginato tutto. Rossosiciliano
Ad un tratto chiamai a voce alta, Colapesce.
- Sono qua, dove vuoi che vada.
- Perchè ti sei ammutolito?

La sua voce si fece più lenta e sofferente. Il suono delle sue parole risuonava come una cantilena tra la risacca delle onde.
- Io ricordo com’è fatta Messina. Ricordo le colline a ridosso del mare. Ricordo le rasole coltivate e le ammacie. Poi le grandi pinete. Ci sono i torrenti e le trazzere che si inerpicano fino in cima alle montagne. Ma non ricordo mai di pioggia che fa scivolare le montagne. 
- Se è per questo non ricordi gli incendi che bruciano le pinete e la gente che non coltiva più la terra.



-  L'acqua scorre da una vita dall'alto in basso, si incanala verso i torrenti e scende verso il mare. La pioggia serve per dare vita non per mietere morte.
- Sai Cola,  quando la pioggia cade su un territorio in cui l'incuria è la sola regola succede un disastro.
Sembrava deluso e rammaricato. Come gli anziani spesso reagiscono alle atrocità del progresso sembrava nel tono incredulo.


Mi piegai per allacciarmi le scarpe e senti forte la pressione alla nuca.
Il malessere fisico si mischiava alla confusione dei ricordi. Che cos'erano questi lampi che mi illuminavano il ricordo della serata. Con chi avevo parlato seduto sulle umide pietre per tutta la notte.
Mentre pensavo a questo mi passai la mano sul sedere e lo sentì indolenzito.
Cosa era successo esattamente quella notte. Dovevo scoprirlo. Avrei chiamato Giovanni per farmi raccontare quello che ricordava lui.
Gli occhiali da sole non riuscivano ad impedirmi di strizzare gli occhi alla vista del giorno.
Ad ogni scalino il cervello sobbalzava nella scatola cranica provocando dolore.
- Pronto, Giovanni come stai?
- Bene, bene. Tu?
- Insomma, ho un solo problema, non ricordo bene quello che è successo stanotte.
Sapevo che dicendo così avrei suscitato la sua ilarità. Avrebbe pensato che non reggevo bene il vino e che sono solo un picciriddu. Ma non avevo alternative.
- Verso le quattro e mezza mi sono svegliato e ti ho trovato addormentato su di un masso. Eri tutto rannicchiato e sparavi minchiate. Mi hai chiamato Cola per tutto il tragitto fino a casa. Non reggi l'alcol, lo sapevo.


Non mi aveva aiutato molto. Giovanni non sapeva cosa fosse accaduto su quella spiaggia durante la notte. Lui aveva dormito tutto il tempo e forse alle luci dell'alba si era svegliato ed in più avevo fatto la figura dello stronzo.
Guidando avevo lo stretto sulla destra. I colori che assumeva andavano dal verde al celeste con spruzzi di blu scuro e chiazze di grigio.
- Ma poi che è questa storia del ponte? Non scherzate che io qua non reggo più.
- Dicono che vogliono iniziare quest'opera. Non sono d'accordo neanch'io...
- Da centinaia di anni vi reggo e vi sopporto a fatica. Io lo dico prima, se lo fate io smetto. Non ho intenzione di tenere a galla un'isola di coglioni.
Ricordo poi il racconto della sua storia, di quello che lo aveva portato a reggere la Sicilia per tutti questi anni.
- Della superficie ho un brutto ricordo. Ho ricevuto solo calci in faccia. Non riesco a provare rancore ma grande delusione.